Tra la polvere delle quinte e la luce della scena

Tra la polvere delle quinte e la luce della scena

Per la serata Smith/León e Lightfoot/Valastro in programma a febbraio, Simone Valastro, diplomato alla Scuola di Ballo dell’Accademia della Scala, è atteso per la sua prima creazione con il Corpo di Ballo scaligero

Simone Valastro

Una carriera di ballerino e coreografo iniziata in seno all’Opéra di Parigi, l’italiano Simone Valastro è alla sua prima creazione per il Corpo di Ballo del Teatro alla Scala. Si intitola Memento, libero rimando a un versetto della Genesi, ma anche emozionante “ritorno a casa” per un artista diplomatosi nel 1998 alla Scuola di Ballo dell’Accademia scaligera. Il debutto è a febbraio nell’ambito del trittico che vede Valastro in creazione accanto a titoli dell’americano Garrett Smith e della coppia Sol Léon e Paul Lightfoot. Il battesimo di Valastro “coreografo” al Piermarini risale però al luglio del 2021. Il pubblico finalmente tornava a teatro a vedere la danza dopo i mesi di chiusura per la pandemia: nel programma a più firme Serata Contemporanea, Valastro rimontò per la prima ballerina Antonella Albano e il solista Massimo Garon Árbakkinn, appassionante duetto su un rapporto di coppia, nato all’Opéra di Parigi per Alessio Carbone e Laëtitia Pujol. Un cammeo di impatto che ha fatto da preambolo all’invito a firmare una creazione per la Scala nella Stagione 2023-2024.

 

FP Memento è un titolo preso da un versetto della Genesi. Come si lega questa scelta al balletto?

SV Tutto è cominciato dalla musica. Ho deciso di montare un dialogo tra due compositori, Max Richter e David Lang. Mi piaceva unire al minimalismo cinematografico, pieno di emozione, di Richter la sperimentazione di Lang. Ho lavorato personalmente al montaggio, tra i sette brani complessivi che ho scelto, di Richter ci sono On the Nature of Daylight e Laika’s Journey, di Lang Simple Song # 3, voce del soprano Sumi Jo, dall’album della colonna sonora del film Youth di Sorrentino, un pezzo bellissimo. Da questo dialogo è nata la struttura del pezzo che mi ha spinto a lavorare su qualcosa che parlasse della vita. Ed è così che sono arrivato al verso della Genesi, quel “memento, homo, quia pulvis es, et in pulverem reverteris” (ricordati, uomo, sei polvere e in polvere tornerai), non per coreografare un pezzo macabro ma per celebrare la vita. Quella bellezza prossima anche a ciò che sperimentiamo ogni volta che lasciamo le quinte per entrare in scena, una sorta di nascita che dura il tempo dello spettacolo. Un parallelismo tra noi, in quinta nella polvere, e noi in scena nella luce.

 

FP Lo definirebbe un pezzo narrativo?

SV No, però ha qualcosa di darwiniano. Insieme al mio scenografo, Thomas Mika, abbiamo ipotizzato di sfruttare la buca dell’orchestra come una fossa da cui i ballerini possano attraverso una rampa approdare alla scena. Vorremmo avere una visione a più livelli, con altre rampe e salite verso il fondo, mi piace l’idea di un fiume di persone che dalla fossa si muove verso l’alto per poi sparire. Vedremo se l’idea funzionerà e sarà realizzabile.

 

FP Con quanti danzatori ha lavorato per Memento?

SV È la prima volta che firmo un pezzo con tanti interpreti. Era un mio grande desiderio. In tutto sono trentaquattro. Per le due parti principali ho scelto Nicola Del Freo e Benedetta Montefiore. Un primo ballerino e una ballerina del Corpo di Ballo. Il direttore Manuel Legris mi ha dato piena libertà sui danzatori e Benedetta era quella che istintivamente è entrata subito nel mio linguaggio. Di solito un coreografo esterno per trovare i suoi interpreti parte dalla visione di una lezione di classico, ma purtroppo questa prassi nel mio caso non è di grande aiuto. Ho bisogno di vedere danzare il mio linguaggio, perciò ho coreografato alcune frasi su cui ho fatto lavorare tutti. E ne sono contento: persone che alla lezione di classico magari non mi avrebbero incuriosito, alla prova nel mio linguaggio, per la morfologia dei corpi, per istinto, mi hanno colpito. Ho insistito con il maestro Legris per avere questa opportunità e lo ringrazio per avermela data. Le frasi che ho preparato sono state come i mattoncini del lego per il mio balletto, un materiale di partenza da cui sviluppare la creazione. Fra i trentadue ci sono ballerini di ogni rango, Corpo di Ballo, solisti come Linda Giubelli, primi ballerini come Marco Agostino. Nei grandi titoli di repertorio come Il lago dei cigni, La bayadère, i movimenti d’insieme suscitano effetti visivi di grande bellezza, avevo voglia di mettermi alla prova con un cast numeroso.

 

FP Lei ha una formazione classica, si è diplomato alla Scuola di Ballo dell’Accademia Teatro alla Scala, ha danzato fino al 2020 con l’Opéra di Parigi, ha firmato creazioni per compagnie di tradizione come il Bol’šoj e l’Opera di Roma, ora per la Scala. Il suo stile però vira altrove, ha già dichiarato che non le interessa far danzare le donne sulle punte. Qualche elemento per entrare nel suo stile?

SV Provengo dal classico, sono un ballerino classico, non nego nulla, sono convinto che la tecnica accademica maschile sia impressionante, da portare avanti. Il classico resta la mia base di partenza, da cui muovermi per esplorare qualcosa di diverso. Le punte, nate in periodo romantico, avevano lo scopo di dare l’impressione di leggerezza, di sconfiggere la gravità. Ma io voglio in scena la fisicità del corpo reale, dell’essere umano. Il ballerino classico sviluppa una sorta di pudore verso il proprio peso, si ha il complesso di far rumore mentre si danza, abbiamo tanti automatismi. Mettere le scarpe da punta a una donna significa farle avere un movimento che si allontana tantissimo dalla gestualità del giorno d’oggi. Ovviamente ho adorato lavorare da danzatore con grandi coreografi come William Forsythe, ero nel cast del suo Blake Works I all’Opéra: è un esploratore incredibile dei limiti del corpo, ma io sono attratto dal rapporto del gesto con il vissuto. Amo lavorare sulla flessibilità e sulla sfera toracica, penso a Pina Bausch e alla capacità di esprimere i sentimenti che ha il centro del corpo. Mi piace utilizzare i movimenti della testa, anche se è stancante per i ballerini, e le mani. Nel classico la mano è la fine di una linea, io insisto perché le mani non siano decorative, voglio che siano un veicolo di qualcosa che viene da dentro.

 

FP Cosa l’ha spinta alla coreografia?

SV Brigitte Lefèvre, all’epoca della sua lunga direzione del Corpo di Ballo dell’Opéra di Parigi, dava la possibilità ai ballerini della compagnia di mettersi alla prova nella creazione. Presentavamo i nostri pezzi nell’anfiteatro dell’Opéra Bastille di fronte a un pubblico ridotto di amici, conoscenti. Un ambiente protetto. Ho deciso perciò di provarci, scoprendo così la bellezza e la soddisfazione del processo creativo. Benjamin Millepied, succeduto a Lefèvre nel 2014, diede poi il via con William Forsythe a un’Accademia Coreografica legata all’Opéra: scelse quattro giovani ballerini interni su cui lavorare, uno ero io. Per me è stata la consacrazione e l’affermazione di un desiderio.

 

FP Quali esperienze sono state per lei più formative?

SV Ho avuto l’opportunità di fare tanta pratica. E conta moltissimo. Quando abbiamo cominciato a fare masterclass con Forsythe ero spiazzato, pensavo ci insegnasse a fare coreografia, invece mi ha fatto capire come ogni autore debba lavorare per trovare il suo metodo, “non ci sono regole, ma è tutta una questione di regole” ci diceva. All’inizio non mi era chiaro, poi è stata una rivelazione. Discutevamo di tutto, l’ultima esposizione al Museo Pompidou, le manifestazioni politiche, conversazioni che non dimenticherò mai. Con l’Accademia avevo anche l’accesso agli archivi video di tutto il repertorio del teatro. Mi sono guardato di tutto, Pina Bausch, Mats Ek, Preljocaj, i grandi classici: un lavoro di analisi coreografica entusiasmante sul diverso approccio di ogni autore alla scrittura, preziosissimo per sviluppare la propria visione. La creazione finale che ho presentato all’Opéra Garnier è stata The Little Match Girl Passion su musica di David Lang. Davvero un peccato che, quando Millepied se ne è andato, Aurélie Dupont non fosse molto interessata all’Accademia Coreografica. Era un progetto da far crescere. Ci sentivamo dei pionieri.

Francesca Pedroni
È critico del quotidiano Il manifesto e della rivista Danza&Danza, docente dell’Accademia Teatro alla Scala, filmmaker