Guillaume Tell, Metropolis e la lotta per la libertà

Guillaume Tell, Metropolis e la lotta per la libertà

Per il suo debutto scaligero Chiara Muti mette in scena l’ultimo capolavoro teatrale di Rossini, una vicenda di portata biblica incentrata sul conflitto tra la virtù e il vizio, tra il bene e il male

© Silvia Lelli 160224 6875 1

“All’inizio tutto è oscurità. Un labirinto di muri si erge, tutt’intorno, soffocando l’orizzonte. Edifici squadrati e asettici disegnano una città ispirata al visionario Metropolis di Fritz Lang, film culto del 1927 profetizzante l’annichilimento della società e l’umanità automatizzata e asservita al profitto”. Questo l’incipit, dal sapore biblico, delle note di regia firmate da Chiara Muti per il Guillaume Tell di Rossini, opera mastodontica del genio pesarese che, per la prima volta, il pubblico della Scala potrà ascoltare nella sua versione originale in lingua francese.

 

 

BS Debutto alla Scala con Guillaume Tell, ce n’è abbastanza per far tremare i polsi…

CM Quando il Sovrintendente mi chiamò per propormi questo titolo gli chiesi: “Ma perché proprio il Guillaume Tell?” E lui mi disse: “Perché dopo aver visto il tuo Don Giovanni mi immagino già quello che potrai fare”. Da regista donna potresti sentire più vicini titoli come Norma, Traviata o Medea e poi - come sempre succede - la tua opera preferita è sempre l’ultima che stai preparando. Nel momento in cui ci si immerge nel lavoro monta la passione e le opere che uno reputa più lontane si rivelano le più vicine, riservando squarci sorprendenti.

 

BS Da cosa è partita nell’impostare la sua regia?

CM Dalla lotta per la libertà, dal conflitto tra la virtù e il vizio, il bene e il male.

 

BS Siamo dunque agli archetipi.

CM Sì, è una storia di portata biblica, Guillaume è il puro, l’uomo visionario che non ammette il vizio, è un eroe suo malgrado perché, per lui, la morale e il rispetto vengono prima di ogni cosa. Non è così per tutti gli altri, non è così per Gessler che rappresenta il male. Nell’impaginare la drammaturgia mi sono fatta trasportare da Metropolis di Fritz Lang. Mi sono chiesta: qual è la libertà che stiamo perdendo? E ho realizzato che ci stiamo auto-asservendo, senza accorgercene, a un meccanismo che ci imporrà sempre di più regole assurde e disumane che tutti accetteremo per quieto vivere. Lo vedo nelle nuove generazioni, col naso giù per terra, fisicamente prostrati al suolo, non guardano più il cielo ma solo questi orrendi mezzi di comunicazione che ci stanno chiudendo al mondo e la cui luce del display è come il sorriso di Narciso, più lo guardi e più finisci nell’abisso senza rendertene conto. Questo male ci sta annichilendo e quel genio di Lang, in Metropolis, aveva prefigurato tutto: che la macchina ci avrebbe mangiato, che l’uomo si sarebbe asservito al profitto e che si sarebbe annichilito. Era il 1927.

 

BS La sua è quindi una critica al sistema capitalistico?

CM Non voglio essere politica, ci metto dentro tutto: io mi riferisco a un sistema mondiale in cui governa il dio denaro e che cela un perverso meccanismo per asservire le masse. Se vuole, una lobby economica che punta alla disumanizzazione. Questa atrocità del male, nella mia regia, è rappresentata da Gessler, biblicamente il demonio. Paradossalmente, oggi tutti sono pronti a dirsi felici per il quieto vivere, come nel primo atto del Tell in cui i pastori festeggiano; ma mi chiedo, cosa festeggiano se hanno perso tutto? Per questo all’inizio del primo atto non vedrete la natura o le alpi, ma i pastori grigi, vestiti come in Metropolis, impolverati, non sono più né uomini né donne, sono solo sagome asservite attorno a enormi palazzi squadrati. Il contatto con la natura è perduto, non siamo più in empatia col nostro prossimo, del resto l’uomo è l’unica specie che trucida i suoi simili. Guillaume è l’unico che può impugnare la leggendaria balestra.

 

BS Allora non ci potrebbe essere opera più attuale di questa: il mondo è insanguinato da guerre fratricide ma, purtroppo per noi, appare impossibile trovare “uomini giusti” come Guillaume capaci di guidarci verso la salvezza.

CM Guillaume è un puro come potrebbe essere San Francesco e San Francesco non sarebbe mai entrato in politica, perché gli mancava la vanità. La corsa alla politica è legata a una componente narcisistica. Guillaume non vuole essere un guerriero riconosciuto, non vuole essere un Danton; lui è l’uomo errabondo, il filosofo, il poeta, potrei dire che è un Cristo. Per questo ho inserito molti spunti e molte simbologie bibliche nell’opera, come la danza dei sette peccati capitali in un sabba diabolico o la mela sulla testa di un bambino innocente che Guillaume deve colpire per distruggere il peccato originale che pesa su noi tutti. Per lui i palazzi eretti dal demonio, o dagli Asburgo se preferite, sono un grande atto di superbia e, come accaduto a Babilonia, crolleranno su loro stessi. È il crollo inevitabile destinato a chi sfida il creato. Schiller, nell’Inno alla gioia, scrive “senti il creato, guarda le stelle, lì troverai le risposte”. Ma oggi guardiamo tutti per terra, i nostri piedi, solo Guillaume non è cieco.

 

BS In estrema sintesi, per lei c’è una grave crisi spirituale in atto, si è perso il rapporto col trascendente, con le stelle.

CM Sì, io amo parlare del creato. Le stelle sono il sorriso di chi ci sta accanto.

 

BS E il sorriso brilla più dello schermo di uno smartphone.

CM Certo, ma i ragazzi di oggi non lo capiscono. Per non dire che non sanno più godere del privilegio della noia. Per noi significava perderci dentro noi stessi, cercare altri mondi, dare spazio all’immaginazione che è forse l’unica cosa che ci differenzia dalla macchina, insieme alla possibilità di commettere errori: se la macchina sbaglia si blocca, noi quando sbagliamo impariamo due volte e troviamo una nuova strada. Anche le grandi scoperte, spesso, sono derivate da un errore, pensi alla penicillina. È l’errore che ci rende quello che siamo.

 

BS Una persona che sa valorizzare gli errori ha avuto certamente dei buoni maestri, quali ricorda con più gratitudine?

CM Strehler in primis, è grazie a lui se mi sono innamorata del teatro! Avevo nove anni quando ho scoperto Le nozze di Figaro, è stato un assoluto coup de foudre. Vedevo quest’uomo vestito tutto di nero che non appena entrava “cambiava” l’ambiente intorno a lui: tutti i personaggi agivano in maniera diversa, saltellavano, staccavano i tempi giusti, si trasformavano. Con lui è nato il mio amore per il teatro, per lo studio dei personaggi, della parola. Non parliamo poi del lavoro che faceva sulle luci: indescrivibile, ricordo intere nottate alla Scala in cui la percezione del tempo svaniva, con lui che chiamava per nome gli elettricisti, tale era l’empatia. Ecco, lì capii che quello era il mio mondo, perché quando uscivo da lì la realtà mi sembrava grigia. L’amore per la musica deriva certamente da mio padre, come potrebbe essere altrimenti! Ma in questo caso il rapporto va ben oltre quello allieva-maestro. Altra persona che non posso non ricordare è Valeria Moriconi: feci con lei il mio primo provino, in cui portavo Donna Elvira dal Don Giovanni di Molière, nonché la mia prima tournée su un testo di Marivaux. Ricordo tutto quello che ho imparato da lei dietro le quinte. Posso dire di aver ricevuto molto da dinosauri, che hanno a loro volta ricevuto da altri dinosauri, pur sentendomi ancora una bambina.  

 

BS La più grande gioia avuta in teatro?

CM È difficile, perché purtroppo ho una mania di perfezionismo - mi viene da mio padre - che mi mangia e di cui devo liberarmi; è un’arma a doppio taglio che può tarparti le ali. Ad ogni modo, forse il Don Giovanni al Regio di Torino con mio padre: ne sono felice, perché per la prima volta ero sicura della strada che avevo intrapreso, così sicura che sono riuscita a convincere pure lui; il suo sguardo complice, alla fine, mi ha profondamente commosso.

 

BS La figura di suo padre, come è normale che sia, emerge continuamente. Qual è il consiglio più utile che le ha dato?

CM Vede, lui è un artigiano, se deve riprendere una sinfonia dopo quarant’anni la riprende come se la studiasse per la prima volta. Questo perché i capolavori vanno sempre trattati con rispetto, mai usarli per apparire, ma sempre mettersi al loro servizio. Mio padre mi ha sempre detto: “Se riesci, è una vita di solitudine e di lavoro”. In casa si è sempre parlato così. Mi ha inculcato la serietà, e la consapevolezza che mai bisogna cercare delle scorciatoie.

 

BS Quale personaggio le piacerebbe interpretare nel Tell?

CM Assolutamente Guillaume, del resto Sarah Bernhardt faceva Amleto e prima di lei, nel teatro elisabettiano, Giulietta era un uomo; così i conti tornano, in teatro tutto si può fare.

 

BS Se al posto mio, davanti a lei, ci fosse Rossini cosa gli chiederebbe?

CM Perché hai smesso di scrivere, a 37 anni, dopo il Guillaume Tell?

Biagio Scuderi