Don Carlo, una psicologia del colore sonoro

Don Carlo, una psicologia del colore sonoro

Per la quinta volta l’opera del 7 dicembre scaligero è Don Carlo, che Riccardo Chailly affronta dopo Macbeth e Boris Godunov, completando così una sorta di “trilogia del potere avvelenato”

Riccardo Chailly 675686BADG ph Brescia e Amisano © Teatro alla Scala

RM Maestro, la scorsa Stagione è stata aperta dal Boris Godunov, quella precedente dal Macbeth, questa lo sarà dal Don Carlo. Non si tratta di una “staffetta” casuale, ma di inaugurazioni che dialogano tra loro. C’è una strategia nella scelta di questi titoli?

RC Senza dubbio. Ci sono pagine importanti che testimoniano l’affinità tra Boris e Macbeth in un volume di Tullio Serafin sull’interpretazione del melodramma italiano, “Stile, tradizioni e convenzioni del melodramma italiano del Settecento e dell’Ottocento”. Michele Girardi ha poi parlato di una relazione evidente “tra le tematiche trattate nel Boris Godunov di Musorgskij e nel Don Carlos di Verdi, cioè le logiche spietate dei detentori di un potere assoluto che disintegra l’aspirazione alla felicità individuale e collettiva degli oppressi”. In queste parole trovo il filo rosso che conduce a questa Inaugurazione. Dal 1951, quando è nata la tradizione di Sant’Ambrogio, è la quinta volta che Don Carlo inaugura la Stagione, precedendo immediatamente proprio Macbeth, che l’ha inaugurata per quattro volte.

 

RM Il rapporto del nostro Teatro con questo titolo verdiano è effettivamente straordinario: fu per la Scala che Verdi lo rielaborò in quattro atti e ne curò la messa in scena; questo è il diciottesimo allestimento da allora, e tre l’avevano preceduto. Ci sono nomi o allestimenti storici che le sono particolarmente cari e che considera di riferimento?

RC Per me tutto è iniziato nel 1968 quando, ragazzo, ho avuto la fortuna di seguire le prove del Don Carlo di Claudio Abbado che avrebbe inaugurato quella Stagione. L’ho riascoltato di recente su YouTube e ho ritrovato tanti umori che ricordo benissimo da allora di quel primo Don Carlo abbadiano, anch’esso nella versione in quattro atti. Ricordo in particolare la prova sezioni con i violoncelli: la famosa scena di Filippo II “Ella giammai m’amò”, infatti, non è mai stata pensata per il violoncello solo, innovazione che venne introdotta solo tardi; Abbado, in anni in cui il movimento delle edizioni critiche era appena agli esordi, evidentemente ne era a conoscenza, ed eseguiva correttamente quel passo. Io stesso in questo nuovo allestimento ripristinerò l’intera sezione dei violoncelli, che aggiunge fascino timbrico e senso di mistero a quella grande pagina, imponendo contestualmente una sfida alla sezione: basta soltanto l’imprecisione di un solo interprete a compromettere l’effetto complessivo.

 

RM L’orchestrazione del Don Carlo, opera d’un Verdi della pienissima maturità, è sicuramente straordinaria. Cosa intende ottenere dall’Orchestra della Scala in questa produzione, cosa si prefigge?

RC Con l’Orchestra della Scala ho già affrontato la grande scena di Filippo II, con Ildar Abdrazakov, nel Gala che ha inaugurato la Stagione 2020/2021 durante il lockdown, e l’aria di Elisabetta “Tu che le vanità” in concerto e in registrazione Deutsche Grammophon con Anna Netrebko. L’opera con il suo colore intende rappresentare al contempo il fasto e l’oppressione della corte spagnola, da un lato la bellezza popolaresca della canzone del velo, dall’altro il colore strumentale fondamentale cupo. Sono emblematiche le due scene che prediligo: il dialogo tra Filippo e il Marchese di Posa e quello tra Filippo e il Grande Inquisitore. Il “viaggio” timbrico con l’orchestra, rispetto alle altre opere verdiane, è singolare: occorre chiedere alle sezioni un colore prevalentemente scuro. Manca nella versione in quattro atti il clarinetto basso, ma questa assenza è compensata dal controfagotto, ben presente nella scena con il Grande Inquisitore. Risale ad Abbado la tradizione di evidenziare la linea del controfagotto con i contrabbassi all’ottava bassa, così da conferire un senso spettrale alla scena. Nel 1884 Verdi non aveva a disposizione il contrabbasso a cinque corde; oggi lo strumento moderno ci permette di amplificare l’effetto in termini ancora più incisivi.

 

RM Nel Don Carlo c’è anche un’evoluzione della stessa invenzione destinata alle voci, che non corrisponde più a quella, poniamo, della Trilogia popolare…

RC In questo Teatro ho diretto Attila, Giovanna d’Arco, Rigoletto: rispetto a queste opere è impressionante come nel Don Carlo Verdi sia riuscito a fondere le forme del melodramma coevo senza che si percepiscano le suture tra una forma e l’altra: la scena, la romanza, la cabaletta (c’è anche questa, anche se naturalmente non la si può più chiamare così). Tutto è fuso in un’unità assoluta. È sbagliato chiamare questa tendenza neowagneriana, perché nel 1867 Verdi non aveva ancora ascoltato Wagner dal vivo. È piuttosto una sintesi nuova di strutture preesistenti che dà un senso di continuità assoluta. E ancora: la musica esalta la dizione stessa di ogni parola, ogni suo accento, non importa se lo si ascolta nella traduzione italiana. Sono poi continue le indicazioni di natura timbrica: cupo, sottovoce, colori di natura psicologica che vanno trasferiti all’organo vocale. Tutto questo è la traduzione musicale della potenza drammatica del testo originario di Schiller. Per questo Don Carlo è difficilissimo da dirigere.

 

RM Lei stesso ha una storia personale con il Don Carlo in quattro atti, che ha registrato in DVD con il giovane Rolando Villazón, l’Orchestra del Concertgebouw e la regia di Willy Decker. Come è cambiato, se è cambiato, in questi vent’anni il suo approccio a questo titolo?

RC All’epoca avevo a disposizione Villazón, che amo molto ma era preoccupato per il volume della sua voce. Allora per tutelarlo ridussi tutti i fortissimo che spesso accompagnano il personaggio e chiesi a quello straordinario regista che è Decker di portare l’interprete verso il proscenio per facilitarlo. Esiste un DVD di quell’allestimento, che mi guardo però bene dall’ascoltare oggi. Vent’anni fa non avevo il vantaggio, che ho oggi, di avere nel frattempo quasi abusato di Giuseppe Verdi, non solo del teatro ma anche della Messa da Requiem e dei Quattro pezzi sacri con cui ho recentemente aperto la nuova Stagione sinfonica del Teatro alla Scala. Oggi godo dunque del beneficio di quel viaggio che ho compiuto attraverso tante altre partiture verdiane. Oggi vedo Don Carlo come una sorta di recitativo continuo, un’opera di dialoghi: a due, a tre, a quattro, a cinque. Quando c’è un momento di riflessione individuale, vi è comunque quella sintesi inedita che si diceva tra forme musicali.

 

RM Qual è il contributo del Coro?

RC Con Alberto Malazzi e il Coro del Teatro alla Scala siamo reduci da una splendida tournée con i cori verdiani che ha avuto un grande impatto europeo. Poi abbiamo eseguito i Quattro pezzi sacri, che includono l’ultimo lavoro di Verdi, lo Stabat Mater, che sono stati contestualmente registrati dal vivo da Decca. In primavera eseguiremo la Messa da Requiem nel 150° anniversario della prima esecuzione. Del contributo del Coro al Don Carlo cito soltanto un esempio emblematico, per me molto significativo nell’ottica dell’interpretazione che intendo dare all’opera: la grande scena dell’autodafé, in cui il colore cupo, scuro di bassi e baritoni dei frati rappresenta un contributo fondamentale alla tessitura timbrica del Don Carlo.

 

RM C’è naturalmente un ultimo tema da affrontare quando di un capolavoro esistono più versioni. Il dibattito sulla preferenza da accordare al Don Carlos del 1867 o al Don Carlo del 1884 è sempre acceso. L’interesse della questione è relativo. Le chiedo tuttavia qualche elemento per orientarsi, dalla sua prospettiva, nell’argomento.

RC Verdi definiva la versione del 1884 un’opera con “più concisione e più nerbo”. In realtà ne hanno in abbondanza anche la versione originaria in cinque atti. Ricordo l’allestimento di Abbado del 1977, in cinque atti e in italiano, come anche la registrazione, in francese, in cui Abbado aveva aperto e aggiunto tutto, però man mano andava riducendo la musica prevista: un vero e proprio tormento di fronte a quello spettacolo immenso che è la versione parigina, molto impegnativa anche per gli interpreti. Noi quest’anno assisteremo alla versione in quattro atti del 1884, che proporrò, e qui sta una novità, integralmente, aprendo quei tagli cui la tradizione ci ha abituato. Ero stato perfino tentato di seguire il suggerimento di Julian Budden, nel suo fondamentale studio in tre volumi sulle opere di Verdi, di eseguire la versione in quattro atti recuperando i ballabili della versione parigina… È vero d’altra parte che i ballabili non danno alcun contributo al dramma e costituiscono un elemento coreografico sostanzialmente estraneo all’azione. Dunque per stavolta non li avremo. Il pubblico scaligero potrà godere dello spettacolo esattamente nella forma in cui Verdi lo ripensò e allestì appositamente per questo Teatro, dieci anni dopo aver regalato a Milano la Messa da Requiem

Raffaele Mellace